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Dorina Storchi
Nata a Reggio Emilia (RE)

il   27/01/1910

Morta a Reggio Emilia (RE)

il   13/12/2003

Figlia di Medardo, antifascista e perseguitato politico, e di Aldina Corradini, capolega bracciantile a Rivalta, Dorina Storchi nasce a Reggio Emilia il 27 gennaio del 1910. La sua è allo stesso tempo una storia comune, esemplare e al centro di molte altre vicende storiograficamente rilevanti. Dorina è una donna antifascista, moglie del comunista Giovanni Ganassi che, richiamato alle armi dal regime per prendere parte alla Seconda Guerra Mondiale, dopo l’8 settembre 1943 viene catturato dai tedeschi e deportato nel campo di prigionia a Königsberg (attuale Kaliningrad). Dorina partecipa alla Resistenza nel periodo compreso tra il 27 giugno 1944 e la Liberazione, all’interno del Comando Unico Provinciale di Reggio Emilia, ma già subito dopo l’otto settembre 1943 aiuta e assiste i soldati sbandati. Viene arrestata verso la metà del gennaio 1944 , tradita da Nicolaj Aschendo Alexander (soldato russo che rivela anche i nomi di Lucia Sarzi, Marianna Bonini, Serena Pergetti e altre). Viene incarcerata per circa tre mesi al carcere dei Servi di Reggio Emilia, interrogata, minacciata e torturata. Per i primi tre mesi di carcere Dorina utilizza la figlioletta Simona, di soli 4 anni, come staffetta e informatrice, cucendo i bigliettini nella fodera del cappotto. Viene poi trasferita nel carcere di San Tommaso, dove rimane fino alla fine del giugno 1944. Di nuovo viene trasferita a Parma e da lì a Traversetolo dove viene liberata il 26 giugno 1944, come scambio, insieme ad altri partigiani, in cambio della liberazione di un soldato tedesco. Tra le tante sue azioni, la partigiana “Lina” ha anche nascosto una coppia di profughi provenienti dalla Francia, in cui il marito era ebreo.

Dalla testimonianza di Dorina Storchi tratta dal testo Partigiane e Patriote della provincia di Reggio Emilia, di Avvenire Paterlini (Edizioni Libreria Rinascita, Reggio Emilia 1977):

” […] In quei giorni la mia Simona sostava spesso davanti alla porta del carcere, poiché sapeva (aveva sentito mio padre parlarne) che io ero chiusa là dentro. Ella veniva con la speranza di vedermi. Conobbe quelli della Brigata Nera e un giorno chiese loro se la facevano parlare con il comandante Pilati; che dissero che non poteva ma lei, che già lo conosceva, gli passò sotto il braccio, gli parlò e riuscì ad ottenere il permesso, aiutata forse dalla sua tenera età (4 anni appena). A parte il sollievo che provavo ad abbracciarla ogni giorno, scoprii ben presto, insieme a Lucia (Sarzi, n.d.r.), che ella poteva essere utile e valido elemento di contatto esterno, e, di conseguenza, poteva portare a noi le notizie provenienti da fuori e riportare le nostre comunicazioni. Noi riuscimmo ad avere preziose informazioni sui progetto d’azione dei fascisti, che avevano lì dei loro comandanti; sia attraverso quello che a noi di “vanto” venivano a raccontarci, sia per ciò che sentivamo o riuscivamo a farci dire da loro. Naturalmente essi alle nostre domande rispondevano senza preoccupazioni, rassicurati dalla nostra segregazione e quindi dall’impossibilità da parte nostra di utilizzare le notizie che ci riferivano. Ci venne anche l’idea di preparare delle note scritte e, da quel momento la mia Simona divenne la staffetta del carcere più feroce di Reggio. Usciva dal carcere coi messaggi cuciti nella fodera del cappotto, andava a casa e consegnava a mia madre o a qualcuno della famiglia il messaggio. Nessuno può immaginare il mio stato d’animo, il terrore che provavo quando mia figlia quei biglietti. Poiché mia sorella era infermiera e poteva girare col coprifuoco, ella andava immediatamente ad avvertire di scappare dalle zone previste per le azioni della Brigata Nera. Molte volte abbiamo sentito i militi, di ritorno dalle azioni, imprecare per aver trovato i nidi vuoti; da ciò noi godevamo con soddisfazione. […]”


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Fulvia Rossi
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Elena Ottolenghi
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