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Erich Klemera
Nato a Bressanone (BZ)

il   16/09/1920

Erich nacque il 16 settembre 1920 a Bressanone. Il padre Hermann, originario di Salisburgo e di nazionalità austriaca, aveva una fabbrica di candele con sei operai, la madre Barbara Niedermier, italiana, era casalinga. Hermann aveva prestato servizio militare come artigliere nell’esercito austriaco, nel forte di Fortezza (BZ), o Mezzaselva, come si chiamava prima del 1942, era uno dei migliori sistemi difensivi dell’arco alpino. Erich frequentò quattro anni di scuola elementare a Bressanone, poi si trasferì in Austria, a Feldkirch, nella Provincia di Vorarlberg, tra il lago di Costanza e il Lichtenstein. Frequentò in collegio i quattro anni di scuola media e i due dell’istituto commerciale; fece parte del coro e poi, per tre anni, il chierichetto. A sedici anni aveva terminato le scuole, aveva imparato a fare le candele, collaborava nel negozio (specializzato di dolci) del padre. Il regime fascista portò avanti in Alto Adige una forzata italianizzazione: nelle scuole e negli uffici si doveva parlare solo italiano. Anche a seguito di quei provvedimenti la famiglia decise di trasferirsi in Austria, dove a Erich arrivò la cartolina di precetto militare. Nel febbraio 1940, non aveva ancora compiuto venti anni, entrò nella Wermacht, l’esercito del III Reich.

Dapprima svolse il servizio premilitare lavorando sei mesi con l’Arbeit Inst (reparto di lavoro) posando cavi in un aeroporto militare in costruzione nella Foresta Nera (nel Baden-Württemberg, sud-ovest della Germania). Il mattino, dopo due ore di marcia, si passava al lavoro vero e proprio.

Il periodo pre-militare di sei mesi (comunque un servizio armato) di Erich e il corso gli valsero per diventare sottufficiale. Dopo pochi giorni dal termine del corso, il 4 ottobre 1940 fu richiamato e a Innsbruck inquadrato nel 136° reggimento Alpini Innsbruck, 5ª compagnia pesante, armata con cannone da 50 mm smontabile e mortai. La divisione alpina era composta dai reggimenti 136°, 137° Salisburgo, 138° Mittebald, e 139° Landek.

Dopo circa due anni Erich incontrò un amico capitano, conosciuto da civile, il quale gli chiese: “Perché non vieni da noi?”. Erich rispose: “Chiamatemi voi”, dopo una settimana arrivò il suo trasferimento al Brandenburg.

Entrato nei ranghi nel Brandenburg, da Innsbruck fu trasferito a Baden, vicino a Vienna; cambiò caserma, compiti, equipaggiamento e armamento; quest’ultimo superiore rispetto a quello degli Alpini: furono i primi a ricevere le nuove mitragliatrici MG.42 e il fucile mitragliatore.

Nel 1943, da Vienna, Erich fu trasferito in Sardegna, dove si temevano sbarchi americani. Nelle basi, in campagna, vicino a Cagliari, Nuoro, Olbia e Oristano, eseguirono altri addestramenti. Erich ricorda che, in sei mesi, piovve solo mezzora. Tutta la compagnia del cap. Hettinger si beccò la malaria. Furono curati in un lazzaretto. Dopo l’8 settembre 1943 il reparto fu trasferito a Merano, in aereo, via Corsica e Pisa. Poi in Val d’Aosta, per fermare gli americani: si temeva giungessero dalla Francia. Poi a Zagabria, in Jugoslavia, ove si stava organizzando un colpo di mano, con una squadra di cinque uomini, per cercare di catturare Tito. Erich, parlando con il maggiore Benesch, disse: “Noi non conosciamo la lingua del posto, in cinque minuti saremo tutti morti!”. Il maggiore rispose: “Hai ragione”. Rimase in Jugoslavia solo chi conosceva le lingue slave.

Per la cronaca, a Dvar, nel maggio del 1944, il maresciallo Tito sfuggì per un pelo alla cattura.

Erich fu trasferito in val d’Ultimo, la vallata successiva dopo la val Venosta in direzione della Svizzera, hotel Paradiso, sede del comando.

 

Quand’eri nelle Marche che armamento avevi in dotazione?

Erich non ricorda bene la pistola, dovrebbe essere stata una pistola automatica Mauser  cal. 9 mm, fucile mitragliatore Sturmgewher e bombe a mano con manico di legno, e anche del tipo più piccolo, simile a un uovo.

 

Descrivimi i luoghi e il periodo delle tue campagne, in particolare nell’Italia centrale.

“Fui mandato nei primi mesi del 1944 a Muccia, alloggiavamo in una scuola, ricordo tanta neve. Noi del “Gruppo Fischer” eravamo un centinaio; comandava il ten. Theo Fischer. A Muccia non avevamo una cucina da campo”.

 

Vi erano specialisti del Genio, artificieri e guastatori tra di voi?

“No”.

 

Erich riprende a ricordare e raccontare: “Conobbi un avvocato di Roma, sfollato nelle Marche, il quale, avendo saputo che io parlavo italiano, mi chiese di fargli da interprete presso il mio comando tedesco, dov’era stato convocato.

L’avvocato aveva intenzione di rimanere a Muccia come sfollato. Un giorno la sua giovane e bella nipote, Siretta Morresi, che aveva meno di vent’anni, mi fece il caffè. Poi mi regalò una sua foto con dietro la dedica: «Il sorriso e il pensiero di un’amica sincera le siano di conforto nei momenti di tristezza». La foto mi fu rubata in un tram a Innsbruck durante la guerra. La donna poi sposò un partigiano (Domenico Paparelli), so che è morta prima del 1997. Ho saputo in seguito che il tenente Theo Fischer era morto negli anni Novanta, mi dispiace non averlo potuto rivedere”.

Erich sostiene che, durante i combattimenti nelle Marche, il gruppo Fischer non perse nessun soldato. Tuttavia il maresciallo Riedl cadde durante l’imboscata di Campolarzo. Erich, per combattimenti intende operazioni condotte da loro, non imboscate ad opera di partigiani.

 

Onorificenze e decorazioni?

“Ottenni due croci di ferro, poi la decorazione fucile con baionetta per dieci attacchi col nemico, il distintivo per ferite in servizio e, avendo praticato sport da civile, potevo sfoggiare anche il distintivo sportivo”.

 

Quali requisiti occorrevano per entrare nel Brandenburg?

“Si doveva conoscere almeno un’altra lingua, oltre al tedesco; nel reparto c’erano altoatesini, francesi, polacchi, olandesi, belgi, russi, jugoslavi, albanesi, montenegrini; ricordo il sergente Haliballi Ramasanov, russo dell’Azerbaigian. Gli altoatesini erano tantissimi, e molti furono i caduti, tra cui cinque miei amici, di Bressanone”.

 

Il vostro ufficiale da chi riceveva ordini e disposizioni?

“Dal capitano Hettinger, con il telegrafo militare in cifra. Il comando era presso l’hotel Paradiso, in val d’Ultimo, una struttura di riposo per le SS ceduta al Brandenburg, ove erano il capitano Hettinger e il capitano Sölder. La zona di operazioni del nostro gruppo era: Muccia, Tolentino, Montalto, Sarnano e Amandola”.

Erich non sa spiegarsi l’avvicendamento dei suoi ufficiali, e non è mai stato nel Lazio, né in Umbria. Di Sarnano ricorda: “Un giorno, non avendo nulla da mangiare, rubammo un maiale. Poi incontrai il sindaco e gli riferii l’accaduto, lui mi rispose che avevamo fatto bene”.

 

Chi decideva dove e come intervenire? Quali erano le disposizioni superiori?

“Dal comando giungevano pochi ordini, decideva molto il comandante, i nostri gruppi specializzati avevano una larga autonomia”.

 

Chi era il tenente Fischer?

“Theo Fischer, originario della Foresta Nera, era un ufficiale non d’accademia ma preparato professionalmente, sui venticinque anni, diplomato al ginnasio, sportivo e di buon carattere, non fumava. Gli ufficiali del Brandenburg partecipavano sempre direttamente alle operazioni, non aspettavano dietro”.

Erich ricorda: “Le paghe di tutti loro pervenivano presso le famiglie, in patria, mediante assegni postali che ricevevano i genitori o le mogli”.

Gli appartenenti al suo gruppo erano tutti celibi, compreso il ten. Fischer.

 

Che differenza c’era tra voi e le SS?

“Loro provenivano quasi tutti dall’alta Germania, erano nazisti e con noi non correva buon sangue. Noi non facevamo politica, il nazismo a noi non interessava”.

 

Cosa ne pensavi delle SS?

“Gli appartenenti alle SS erano fanatici, non erano nostri amici, con noi non avevamo nulla a che fare”. Precisa di non aver avuto contatti con loro, a Muccia e nelle Marche.

 

E con la Gestapo?

“Non volevamo avere nulla a che fare con la Gestapo. Quelli dovevano essere contro i criminali, invece erano criminali loro stessi. Qualsiasi cosa dei nazisti noi non lo accettavamo”.

 

Spassionatamente qual era l’opinione corrente dei soldati della Wermacht sui militi della Repubblica di Salò?

“Non ce ne interessava nulla. I fascisti, per noi, non erano niente!”.

 

Nella zona di Camerino e dintorni conoscevi qualcuno del 3° Brandenburg e degli alpini della 5ª Divisione da montagna Gebirgs che vi operò?

“Non ho mai sentito 3° riferito al Brandenburg”.

 

Dove e come catturaste quei cinque partigiani?

“Nelle campagne non troppo distanti da Muccia, non ricordo dove di preciso. Erano dei partigiani che portavano con loro tanti bambini e vecchie donne verso una baita.

Li lasciai entrare, poi salii sul tetto e, attraverso il camino, intimai loro di arrendersi, altrimenti avrei lanciato una bomba a mano dal camino. Uscirono tutti e cinque con le mani alzate e si arresero. Avevamo fatto una sosta per riunirci con altre squadre, quando una donna russa venne a chiederci di rilasciare i cinque”.

 

Sbalordisce la buona intercessione di questa donna, tuttavia viene spontaneo chiedersi: “Con quale autorità o in quale veste si rivolse loro?”. Più tardi ne sapremo di più.

 

“Le disposizioni erano che andavano fucilati sul posto, senza processo, perché erano ribelli armati. Io invece scelsi di portarli al presidio fascista di Macerata. Lì quei pazzi offrirono loro di arruolarsi nella Decima MAS e li lasciarono andare, con un invito a presentarsi al reparto. Poi seppi che non si erano presentati a destinazione ma erano fuggiti”.

 

Venerdì 9 giugno 1944 dovevate scortare qualche convoglio o svolgere qualche compito particolare?

“Eravamo andati a fare un giro per poi recarci a prendere del cuoio da una vecchia conceria chiusa a Muccia e portarlo in caserma. Il cuoio serviva per fare scarpe e stivali per gli ufficiali. Comandava il maresciallo Ludwig Riedl, mio coetaneo, un buon uomo originario della Foresta Nera vicino a Stoccarda, dove la gente è buona”.

 

Che cosa accadde quel giorno?

“Eravamo su un moto carrello scoperto, usato per trasportare in montagna vitto e munizioni, requisito agli alpini italiani. C’erano l’autista, il maresciallo Riedl, io e un altro sergente. All’altezza di una curva (sulla nazionale 77 dopo circa 150 m da Campolarzo verso Bistocco) fummo fatti segno da numerose raffiche di mitra. Saltammo giù tutti, mi accorsi che il maresciallo Riedl era stato colpito a morte, mentre un partigiano seguitava a sparare. Mi buttai nel sottostante fiume con la divisa e le armi, ero un bravo nuotatore, l’acqua era molto fredda. Il nutrito gruppo di una trentina di partigiani seguitava a sparare contro di me un proiettile mi passò da parte a parte la gamba sopra il ginocchio destro. Dopo aver nuotato e camminato per circa due chilometri, trovai un contadino al quale chiesi se vi erano partigiani in giro; alla risposta positiva mi ributtai nel fiume. Più avanti incontrai una contadina (Rita “de’ Pescià” coniugata Troiani) con una bimba, che mi disse di seguirla; mi portò nel suo “maso”, mi tolse la divisa bagnata e rovinata, e mi fece mettere a letto.

Rita voleva andare in farmacia a prender qualcosa per curare la mia ferita, e mi preparò un uovo sbattuto. Dal letto potevo vedere fuori dalla finestra. Vidi così che arrivarono i partigiani che mi avevano attaccato, che chiesero se aveva visto un tedesco; la donna, alla terza domanda, rispose: Sì”.

A questo punto irruppe sulla scena con energia la quarta delle sei donne di questo racconto: Nunzia Cavarischia.

“Entrò nella camera una ragazzina di quattordici anni, con il berrettino e la gonna, (se poteva chiamarsi una divisa partigiana), che gridò: “L’ho preso, l’ho trovato!”. Ebbe la prontezza di riflessi di prendere subito il mio cinturone con la pistola, il mitra e le due bombe a mano a forma d’uovo. Tuttavia le munizioni erano bagnate. Poi entrò il padre dicendomi che ero prigioniero degli Alleati, specificando che non mi sarebbe successo niente.

Dopo pranzo mi portarono, sdraiato su un carretto trainato da un cavallo, a Borgianello, presso un accampamento dei partigiani”.

 

A Borgianello Erich trovò quei cinque partigiani che lui aveva preso qualche giorno prima, i quali, vedendolo, esclamarono: “È lui, è lui!” abbracciandolo e baciandolo. Ricorda che erano giovani di Tolentino e dintorni, comunque tutti italiani. Poi venne lo zio di Siretta Morresi, l’avvocato al quale aveva fatto da interprete. Gli disse che se aveva bisogno di qualcosa di rivolgersi a lui. Erich rimase molto dispiaciuto della morte del maresciallo Riedl; seppe, in seguito, che fu sepolto al cimitero del Verano a Roma.

 

Da prigioniero dei partigiani ti rendesti utile in qualche occasione?

“Un giorno (giovedì 15 giugno 1944), la mia ferita alla gamba era quasi guarita, camminavo nel piazzale antistante la chiesa (di San Pietro, XV sec.). I partigiani avevano ricevuto delle armi dagli Alleati con i lanci. Un giovane studente (Albino Caselli, 22enne di Tolentino) stava armeggiando con una bomba a mano americana; io ero lontano circa venti metri e stavo chiacchierando con un partigiano ferito. A un certo punto il giovane tirò imprudentemente l’anello della sicura e, invece di buttar via subito l’ordigno, lo trattenne in mano finché non esplose uccidendolo e ferendo altri cinque partigiani. Io e il partigiano facemmo in tempo solo a buttarci a terra, salvandoci dalle schegge. Credendo si trattasse di un attacco, i partigiani scapparono tutti. All’inizio mi prodigai da solo a soccorrere i feriti. Il “capitano”, riconoscente per l’opera prestata, mi fece conoscere a tutti, proponendomi di rimanere nell’Italia libera o ritornare a casa dai miei.

Il giorno dopo mi chiesero di fare l’interprete per loro, in divisa; io accettai, ma solo in abiti civili. In seguito, in montagna, fu preso prigioniero un paracadutista tedesco; io feci da interprete all’interrogatorio, ma lui non sapeva niente di utile. Durante il percorso a piedi scoppiò un violento temporale; i due partigiani che mi accompagnavano ripararono in una baita ed io ne approfittai per fuggire verso nord. Camminai tutta la notte; la mattina successiva – era bel tempo – incontrai dei contadini: sembravo un partigiano; mentre mi dirigevo verso le linee tedesche, essi esclamarono: “Ma che sei pazzo?”. Vidi i soldati tedeschi e li raggiunsi non ricordo dove; scoprii che erano alpini provenienti da Montecassino”.

“Dal punto di vista militare e organizzativo i partigiani erano impreparati, mi resi conto ancora di più con lo scoppio della bomba a mano a Borgianello; gli sten inglesi erano imprecisi. Se essi mi avessero chiesto spiegazioni, io le avrei date.

 Mentre i fascisti piangevano i loro caduti, noi pensavamo che morire per la patria fosse importante, ma non ero nazista”.

 

Hai saputo nulla dei fatti di Capolapiaggia del 24 giugno 1944?

“No, non si parlava di operazioni”.

 

Quando durò la tua prigionia?

“Circa due mesi, in agosto riuscii a fuggire”. Nunzia sostiene che Erich fuggì da Statte quando era in custodia ai partigiani di don Nicola Rilli. Probabilmente la sua prigionia durò di meno.

 

La signora Nunzia Cavarischia, all’epoca staffetta del “Gruppo Volante 201”, chiarisce: “Dora era una quarantenne russa, internata a Caldarola, che fuggì in montagna e si aggregò al nostro gruppo”.

Erich ricorda: “Ho rivisto quella donna russa a Borgianello, senza parlarci, poi non ho più saputo sue notizie”.

Nunzia precisa che la donna fu catturata, durante un rastrellamento, dai nazifascisti (26 giugno 1944), a Serrapetrona, quando Erich era già fuggito. Tuttavia intorno a questa coraggiosa donna aleggia un alone di mistero! Si trattava di una doppiogiochista?

 

Durante la prigionia quali furono le tue riflessioni? Temevi di essere ucciso? “Non l’ho mai pensato, ma Nunzia mi disse che due partigiani fanatici mi volevano uccidere, poi cambiarono idea”.

 

Quando ti sei convinto che anche i partigiani erano delle brave persone?

“Dopo pochi giorni già potevo parlare direttamente con i loro ufficiali. Avevamo un nemico in comune: i fascisti. Tutti mi rispettavano. La sera si cantava: “Borgianello, posto ribelle ai fascisti togliamo la pelle … Ero vicino a loro e mi trovavo e mangiavo bene”.

 

Dove e quando ti sei reso conto che la guerra per la Germania nazista era effettivamente persa?

“Circa sei mesi prima della fine della guerra, parlando con il ten. Fischer, all’hotel Paradiso; anche lui era della mia stessa opinione”.

 

Dove vi siete arresi?

“All’hotel Paradiso, in val’ d’Ultimo, insieme al ten. Fischer”.

 

Secondo il tuo parere, come mai tedeschi e austriaci hanno creduto al fanatico illusionista con i baffi?

“Era un virus, tutta la gente era malata di nazismo. Prima della guerra, con un gruppo di amici mi salutavo con ciao, mentre gli altri usavano heil”. Il regime nazista non mi piaceva e non piaceva agli austriaci, che preferiscono la bella vita e la calma, tra le montagne più belle del mondo: ciò ci basta. Molti presidenti italiani sono venuti in vacanza nell’Alto Adige. A Bolzano non ci sono nazisti, né fascisti, di lingua tedesca. Nel 1945, prima della fine della guerra, fui promosso feldwebel (maresciallo ordinario) con una stella”.

 

Quanti anni di servizio, complessivamente, hai svolto nell’esercito del III Reich? Hai ottenuto qualche beneficio pensionistico?

“Cinque anni in tutto, dal gennaio 1940 all’aprile 1945. Non ho ricevuto alcuna pensione dalla Germania, ho solo beneficiato di quel periodo ai fini del raggiungimento dell’età pensionabile”.

 

Hai conosciuto il tenente Rommel (nipote del gen. Erwin Rommel) del presidio tedesco di Montalto Marche (AP), che aveva sede nel collegio dei frati tedeschi Salvatoriani? Con lui c’era il capitano Fischer; dietro alla villa Vinci di Cupra Marittima c’era la Gestapo.

“Mai sentito nominare, io conoscevo un solo ufficiale con quel cognome: Theo Fischer”.

 

L’incontro, nelle Marche, del 20 marzo 1997 con i tuoi nemici di un tempo è stato davvero emozionante?

“Mi sono innamorato delle persone e dei luoghi. Loro hanno apprezzato il mio comportamento leale da soldato. Se mi fossi comportato male, probabilmente, sarei morto. Ho fatto un atto di umanità a non uccidere quei cinque partigiani”.

Attingendo ai suoi ricordi, Erich prosegue, riferendosi al dopoguerra e dimostrandoci di essersi riadattato benissimo alla vita civile:

“Nel 1952 sposai Theodora, una gran bella bolzanina, mi stabilii in città facendo il grossista di scarpe, lei era casalinga. Nel 1983 diventai il primo agente generale in Italia delle calzature francesi Mephisto. Anche mio figlio Gianni lavora oggi con la Mephisto, in ogni provincia ha un rappresentante: dalla Francia le scarpe sono consegnate direttamente ai clienti”.

 

Da questo colloquio emerge il ritratto di un uomo che, pur attaccato al dovere di sottufficiale, non ha perso la sua umanità ed ha saputo apprezzare la lealtà dei suoi avversari. Dopo il conflitto mondiale è stato in grado di reinserirsi bene nel mondo civile, tanto da diventare uno stimato commerciante all’ingrosso.


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